venerdì 26 agosto 2011

Carlo Amirante: dalla Calabria alla breccia di Porta Pia.


Spesso sentiamo nominare “via Carlo Amirante” a Soverato, ma chi era costui? Per ricostruire la sua storia va richiamato un evento fondamentale tra le tappe che portarono all’unità nazionale: la breccia di Porta Pia. Attraverso quella breccia, il 20 settembre 1870, un corpo di fanti e bersaglieri al comando del generale Raffaele Cadorna irruppe nell’Urbe. Vittorio Emanuele II, infatti, visti vani i tentativi di ottenere Roma con la sola diplomazia aggirò il veto francese con l’inganno. La Convenzione di settembre del 1864, stipulata a Parigi, prevedeva che la Francia ritirasse le sue truppe da Roma nell’arco di due anni, in cambio dell’impegno italiano a rispettare l’integrità territoriale dello Stato Pontificio. Una clausola segreta prevedeva inoltre il trasferimento della capitale da Torino a Firenze, come atto simbolico di rinuncia a Roma capitale. Con la caduta del governo di Napoleone III in seguito alla disfatta francese nella guerra franco-prussiana, la Convenzione cadde e fu cosí che si arrivò all’azione di forza che permise di completare l’unificazione italiana a spese del plurisecolare Stato pontificio, l’ultimo di una serie di Stati sovrani occupati con la forza dai piemontesi. L’autore materiale della breccia di Porta Pia fu un giovane tenente di artiglieria che rispondeva al nome di Carlo Amirante, già suddito del Regno delle Due Sicilie. Un giovane diverso e contro corrente, tanto da scrivere a papa Pio IX: «La mattina del 20 settembre scorso dovetti come militare eseguire senza discutere gli ordini che mi erano stati dati. Fui ferito e chissà che la Beata Vergine non mi abbia salvato concedendomi il privilegio di inginocchiarmi ai piedi di Vostra Santità». Il Pontefice lo convocò subito e lo ricevette in udienza privata. Amirante si congedò e decise di farsi sacerdote. Ordinato nel 1877, spenderà a Napoli tutta la sua esistenza nelle opere caritative. Morirà nel 1934. La sua causa di beatificazione è stata introdotta il 19 giugno 1980 da Giovanni Paolo II. Quei colpi di cannone segnarono una svolta profonda nella vita di molti italiani ma soprattutto nella sua vita.
Carlo Amirante, secondo alcune fonti poco attendibili, nacque nel 1852 a Soverato, presso Catanzaro, Regno delle Due Sicilie. Pare invece che sia nato in località Razzona presso Cardinale, nelle Serre Calabresi. Il padre fu, dopo l’Unità, prefetto di Salerno, ma perse il posto perché, buon cristiano, aveva pubblicamente schiaffeggiato in una chiesa il famoso fra Pantaleo (che era stato braccio sinistro di Garibaldi nell’impresa dei Mille), indignato per le affermazioni blasfeme di costui. Carlo frequentò l’Accademia militare della Nunziatella e ne uscí col grado di tenente d’artiglieria. Aveva diciotto anni quando lo mandarono alla presa di Porta Pia e toccò proprio a lui aprire il fuoco contro la città del Papa. Ci fu una scaramuccia, forse l’unica, perché Pio IX aveva dato ordine ai suoi di non rispondere all’aggressione. Carlo fu ferito gravemente alla gola e ricoverato in ospedale. Qui venne intervistato da Edmondo De Amiciis, inviato da un giornale piemontese. Lo scrittore rimase profondamente colpito dalla testimonianza del giovane tenente, che era addolorato soprattutto per aver dovuto sparare contro il Papa. La ferita sul campo gli valse la promozione a capitano, ma lui volle recarsi da Pio IX a chiedere perdono. Il Papa lo rassicurò, dicendogli che non ha colpa chi obbedisce agli ordini. Carlo però non si sentí piú di continuare una professione che, in quelle circostanze, lo costringeva a dover costantemente scegliere tra la sua coscienza di cattolico e l’onore di soldato. Cosí, (in un periodo in cui il governo unitario anticlericale e massonico oltraggiava sempre piú i principi morali del popolo italiano) decise di abbandonare l’esercito. La crisi ebbe un seguito, perché maturò in lui l’idea di farsi sacerdote. Era fidanzato, ma si spiegò con la sua ragazza, profetizzando che anche lei sarebbe stata suora (cosa che effettivamente accadde) ed entrò in seminario. Ma l’educazione militare lo aveva segnato e anche in seminario emerse la sua tempra. Un suo amico sacerdote era entrato nella massoneria (a quel tempo caratterizzata da un odio feroce per il cattolicesimo) e gliel’aveva confidato. Carlo provò con preghiere e suppliche a farlo desistere ma non ottenne risultati. Il neomassone un giorno si ammalò seriamente e fu per morire. Carlo lo supplicò di confessarsi un’ultima volta, ma quello non ne volle sapere. Allora l’ex capitano cominciò a sfasciare a mani nude tutti i mobili della stanza, incutendo tale paura nel malato da indurlo a ricevere un prete. Carlo andò di corsa a chiamarne uno, ma al ritorno trovò che la casa era sbarrata da una donna pagata dai massoni locali, che erano stati avvertiti. L’Amirante senza pensarci due volte inchiodò la donna alla parete e la tenne ferma per tutto il tempo della confessione, cosí che l’amico poté morire riconciliato con Dio. Nel 1877 divenne sacerdote e cappellano militare a Napoli. Fu matematico, compositore (era in grado di suonare tutti gli strumenti musicali) e letterato. In questa veste ebbe come allieva la scrittrice Matilde Serao. Passò la vita a prodigarsi soprattutto contro le ingiustizie. Alcuni esempi. I vigili del fuoco a quell’epoca non potevano sposarsi. Carlo si adoperò perché il divieto fosse abrogato e venisse loro raddoppiata la misera paga. Le case di tolleranza del tempo erano prive di qualsiasi controllo sanitario e diffondevano la sifilide specialmente fra i soldati; non solo, ma le prostitute vi venivano trattate alla stregua di schiave, alla mercé di profittatori senza scrupoli che le abbandonavano sul lastrico quando erano troppo vecchie (cioè, passati i trent’anni). Don Carlo pregò uno di questi sfruttatori di affittare la sua “casa” a gente normale, con una pigione maggiorata cui avrebbe aggiunto una congrua somma di tasca sua. Quello non ne volle sapere, perché “si divertiva di piú” cosí. Don Carlo allora lo affrontò da uomo a uomo minacciandogli il castigo di Dio. Ne ebbe un definitivo rifiuto, ma quattro giorni dopo la casa sprofondò, in un momento in cui non c’era nessuno dentro. Nel 1909 imperversava L’Asino, una rivista satirica e sguaiatamente anticlericale il cui fondatore e direttore, Podrecca, andava in giro a tenere conferenze «per liquidare i trucchi e le menzogne dei miracoli di Lourdes». Contro di lui era sceso in campo anche il p. Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica: venne deriso come «il mulo che attacca l’asino». Podrecca doveva venire a parlare a Napoli, dove don Amirante era esorcista ufficiale. Saputolo, il battagliero prete riuní i suoi sacerdoti e si recò davanti alla sala dove si sarebbe dovuta tenere la manifestazione. Qui prese a recitare tutte le imprecazioni contenute nel Salmo 108. Podrecca arrivò in città ma la carrozza che doveva condurlo alla conferenza - dove il pubblico già si assiepava - ebbe un incidente e il fiero anticlericale finí all’ospedale con una gamba rotta. La manifestazione venne annullata. Don Carlo Amirante morí esemplarmente, vecchissimo, nel 1934.

Antonio Pitaro: un uomo di scienza il cui ricordo vive tra mistero e realtà.


Al contrario di quanto possa sembrare dalla terra di Calabria emergono,da sempre,uomini di libero ingegno,uomini eruditi,uomini che s’innamorano di ideali grandi,universali e li perseguono con ostinazione.
“E’ la terra del contrasto e dell’individualismo che una volta fu nutrice di briganti e d’avventurieri,ma fu pure madre feconda di mistici,d’utopisti e di filosofi.” (Oreste Dito)
Antonio Pitaro fu uno di questi uomini di valore,di cultura e di grande ingegno ma che portano nell’animo le contraddizioni delle loro terra aspra,difficile e martoriata dall’uomo e dalla natura. Pitaro è stato a lungo dimenticato dalla sua gente e ricostruirne una biografia attendibile non è alquanto semplice in quanto attorno a questa figura è presente un alone di mistero creato,da alcuni biografi ma anche dallo stesso Pitaro.
Antonio Pitaro nacque a Borgia (Cz) da Saverio e Rosa Febrajo il 31 agosto 1767. La data di nascita non è accertata,alcune fonti la riportano nel 1774. Egli nel corso della sua vita,cambiò la sua età ripetutamente,cos’ come dichiarò nomi diversi agevolando la sensazione di enigmaticità e mistero attorno alla sua figura. Fu battezzato nello stesso giorno di nascita ,come si usava a quel tempo,e gli furono attribuiti i nomi di Domenico Antonio Ferdinando Raimondo.
Antonio fece parte di una famiglia distinta che generò abili professori in medicina.(Il padre Saverio viene menzionato dal figlio come uomo di scienza e di valore inoltre un cugino di Antonio,Gioacchino Pitaro, sempre nativo di Borgia era medico e fisico. Questi dati lasciano intendere come la situazione economica familiare fosse agiata da potersi permettere ottime preparazioni scientifiche e umanistiche). Fece i primi studi nel seminario arcivescovile di Squillace non manifestando una chiara vocazione religiosa. Egli studiò con profitto e dopo aver fatto rapidi progressi nelle scienze naturali, si trasferì a Napoli, capitale del Regno, per intraprendere gli studi di medicina. Dovette laurearsi giovanissimo poiché,secondo le sue affermazioni, a soli ventuno anni (nel 1788) fu docente di fisica all’Ospedale del Corpo Reale di Artiglieria di Napoli,subito dopo Direttore dell’Ospedale Militare,e l’anno dopo Presidente dell’Accademia Reale della Marina. L’attività scientifica di Pitaro a Napoli fu intensa e frenetica; proprio grazie ai suoi numerosi lavori, egli raggiunse una credibilità notevole in campo accademico, nonché un’altissima reputazione.
Nella seconda metà del Settecento Napoli era centro d’attrazione dei giovani intellettuali calabresi e non,la scena culturale fu dominata da alcune personalità di grande prestigio come Antonio Genovesi,Ferdinando Galiani,Gaetano Filangieri,Francesco Mario Pagano che diffusero i principi dell’Illuminismo. Questo fermento culturale rapi il giovane Pitaro la cui fama spiccava dagli ambienti scientifici a quelli culturali,e anche nei salotti mondani. Secondo alcuni ,nel periodo napoletano,Antonio Pitaro ebbe una relazione con una celebre ma sfortunata nobildonna napoletana: Luisa Sanfelice.
Nel marzo 1799 fu proclamata la Repubblica Napoletana;tra i maggiori artefici della rivoluzione in campo politico e militare furono annoverati numerosissimi Calabresi. L’attività di Antonio Pitaro durante la breve vita della Repubblica non è chiara. Il suo comportamento pare sia stato ambiguo ma il suo contributo fu rilevante alla causa repubblicana. Egli esaminò una palla incendiaria inglese ritrovata da truppe francesi e fu in grado di ottenere un modello con capacità incendiare e distruttive superiori. L’Ammiraglio Francesco Caracciolo (originiario di Girifalco,in provincia di Catanzaro) si servì dell’ordigno nei combattimenti contro gli Inglesi guidati dal valoroso Ammiraglio Nelson,eroe di Aboukir.
La Rivoluzione Napoletana ebbe vita breve in seguito all’intervento del Cardinale Ruffo,del già citato Nelson e con l’apporto di truppe turche e russe che riportarono sul trono i Borboni. Furono perseguitati tutti gli intellettuali ed i sostenitori della Repubblica Napoletana,molti Calabresi finirono sul patibolo mentre Pitaro fu imprigionato nelle carceri di Castel dell’Ovo ,da dove evase abilmente (pare travestito da donna) e riparò a Capri ,non ancora occupata dagli inglesi. Da qui parti per l’esilio in Francia.
Con la caduta della Repubblica Napoletana,una nuova ondata di esuli italiani raggiungeva la Francia,in maniera particolare la capitale Parigi. Sembra che Pitaro prima di approdare a Parigi fece due soste a Marsiglia e Lione. In Francia si dedicò interamente ai suoi studi prediletti e dopo sedici anni di residenza a Parigi ottenne la naturalizzazione francese (probabilmente nel 1816).Riuscì ben presto ad introdursi nei salotti parigini, e in particolare nel salotto di Maria Letizia Ramolino, madre di Napoleone, finendo col divenire medico di quest’ultima. Ottenne una buona fama e Napoleone stesso lo nominò primo medico di Corte e successivamente gli diede la Presidenza della Reale Accademia delle Scienze. Ebbe la nomina a medico legale della Corte di Appello di Parigi,e di varie Società mediche non solo francesi,ma anche di Westminster,di Londra e di Napoli. Ottenne anche il privilegio reale di poter esercitare la professione in tutte le terre dell’Impero. La fama, le importanti amicizie e la protezione dalla polizia che ottenne, in questo periodo, gli permisero di affrontare con tranquillità anche i radicali cambiamenti della Restaurazione. Si spense a Parigi il 28 luglio del 1832 nella sua abitazione di rue Hauteville al numero 2. Nonostante la buona fama raggiunta, la sua fu una morte senza clamori: ciò è probabilmente dovuto sia all’insieme di fattori (quali le rivolte, e il dilagare del colera), che tenevano l’intera città col fiato sospeso, sia alla perdita progressiva, da parte di Pitaro, delle facoltà mentali e delle capacità fisiche, che determinarono un suo rapido allontanamento dagli amici e dal centro della cultura del Paese.
Antonio Pitaro non fu solo medico ma anche poeta e scrittore. Tra le sue opere ricordiamo un trattato sulla produzione della seta,gli studi sugli effetti e sulla terapia del tarantolismo (opera ultimata in Calabria dopo delle osservazioni fatte tra Catanzaro e Borgia),sul galvanismo,sulla “materia grigia” trovata nella grotta dell’Arco a Capri,sulla terapia contro la morte da soffocamento.
Pitaro medico ,scienziato,poeta,letterato,visse tra un mito e la realtà di esule,tra le asprezze della Rivoluzione Napoletana del 1799 e l’avvincente vita parigina d’inizio ‘800,tra medicina e poesia. Conobbe e frequentò personalità che contribuirono a scrivere la storia dell’Italia e della Francia,partecipò ai loro progetti e ai loro intrighi. Fu un intellettuale con tratti di genialità che spaziando nei diversi campi del sapere,fece emergere sempre la sua cultura di base:un medico che praticò sempre la medicina e che gli consentì di approfondire molte delle sue ricerche attraverso le conoscenze di fisica,chimica,fisiologia e clinica. A Parigi gli è stato eretto un monumento in una villa cittadina, per eternarne l’opera e l’ingegno.